
Parto da un presupposto: nel 2017 ho scritto un libro sul Retargeting e sul Remarketing. Questo la dice lunghissima su come io stia vivendo questo momento di grandi mutamenti in fatto di cookie, consenso, privacy, profilazione, misurazione e chi ne ha più ne metta.
Sì, perché chi ha iniziato a fare pubblicità online qualche annetto fa ha avuto per anni l’impressione che fosse un po’ tutto possibile. E non era solo un’impressione. Si poteva accedere a una miriade di dati personali dell’utente con i quali potevamo fare campagne pubblicitarie in maniera decisamente efficace. Potevamo trattenere quei dati all’interno delle nostre piattaforme per un tempo molto ampio e potevamo fare tutto questo senza chiedere consensi o altro. Potevamo tanto, e raramente ci siamo chiesti se tutto questo fosse etico, lo ammetto.
A questo aggiungiamo che il mercato era molto meno saturo, i costi pubblicitari molto più bassi e il livello di blindness alla pubblicità era più ridotto.
I cookie di terze parti: cronaca di una morte annunciata
Eravamo allettati da importanti ritorni sugli investimenti fatti e questo bastava. In fondo il mondo delle performance era il mondo della spinta all’acquisizione di traffico e potenzialmente di conversioni, a qualunque costo.
Ecco, tutti questi dati e queste meraviglie dell’advertising online erano e sono intimamente connessi ad alcuni elementi, i cookie di terze parti, appunto, che nel 2024 spariranno del tutto. Sì, spariranno. E questa cronaca di una morte annunciata cambierà – l’ha già fatto per buona parte – radicalmente il nostro modo di valutare le performance delle nostre campagne. Ma soprattutto rivoluzionerà l’approccio al mondo del marketing online.
Cookie di terze parti: di cosa parliamo esattamente?
Premessa doverosa: i cookie – di cui si è parlato tantissimo negli ultimi anni – sono una cosa buona. La loro nascita è di gran lunga antecedente a tutte le normative che ne limitano l’attivazione e spingono alla richiesta del consenso proteggendo la privacy degli utenti. Sono tracce, chiamiamole così, che registrano alcune informazioni di navigazione.
Ma partiamo da alcune distinzioni fondamentali. Abbiamo diverse tipologie di cookie: possiamo distinguerli per durata, per finalità, per provenienza, ecc. Alcune tipologie, per esempio, sono indispensabili per avere un sito web funzionante e per garantire una buona e fluida navigazione (i cookie tecnici).
Altri cookie, invece, come quelli di profilazione, trattengono dati personali dell’utente; dati che vengono sfruttati da piattaforme esterne al sito web che stiamo navigando. E proprio questa è una delle questioni più spinose in merito alla tutela della privacy.
Le ultime versioni della normativa europea in materia hanno consegnato nelle mani dell’utente la possibilità di accettare che alcuni di essi vengano attivati o meno durante le nostre esplorazioni in rete.
I principali indiziati: i cookie di provenienza
Ci soffermiamo un attimo in particolar modo sui cookie di provenienza perché sono i loro i principali indiziati. Distinguiamo così:
a. I cookie di prime parti
Sono cookie che fanno capo solo al sito su cui stiamo navigando. Servono a personalizzare l’esperienza di navigazione, semplicemente.
b. I cookie di terze parti
Questi sono cookie, invece, che trattengono comunque dati sul comportamento dell’utente (IP, cronologia di ricerca e navigazione, dispositivo, località, ecc.), ma che vengono installati da domini (appunto) terzi al sito web su cui stiamo navigando.
Quindi le informazioni vengono cedute a queste piattaforme esterne, pubblicitarie per intenderci, per costruire campagne di advertising mirate e profilate sulla base dei dati registrati. È su questa tipologia di cookie che, in maniera particolare, si pone il problema del consenso, della privacy dell’utente, ecc.
È la fine della pubblicità comportamentale?
L’advertising sul web ovviamente ha goduto pieni benefici dei dati tracciati dai cookie di terze parti. Da Analytics a Meta, passando per Criteo e Google Ads, solo per citarne qualcuna, tutte le principali piattaforme di analisi dati e pubblicità online utilizzano questi elementi per profilare e mostrare la pubblicità così definita comportamentale, ossia quella basata su interessi e comportamenti degli utenti.
Va da sé che la cancellazione dei 3rdParty Cookie sia una tempesta non di poco conto per chi si occupa di pubblicità online e per chi, finora, ha sfruttato queste informazioni per monitorare le performance delle proprie attività di advertising.
Abbiamo, di fatto, meno dati di quanti ne avessimo in passato.
Siamo stati costretti, e lo saremo sempre di più, a trovare nuove modalità per profilare i nostri utenti e per offrire loro la pubblicità. La profilazione non è un male, ci permette di avere una navigazione più in linea con i nostri reali interessi, sia chiaro. Ma la vera sfida per i marketer che dovranno fare i conti con questa grossa novità sarà per lo più strategica: lavorare sulla relazione con i propri prospect, strutturare nuove modalità di comunicazione per ottenere il consenso all’utilizzo dei dati, e valorizzare sempre di più il dato di prime parti, quindi quello di cui siamo proprietari. La tutela del dato al centro, quindi.
Che ne sarà, allora, della misurazione delle performance?
Se la pubblicità online, quindi, dovrà (sta già!) facendo i conti con questa novità importante, l’altro tassello su cui dovremo trovare strade alternative sarà proprio la misurazione delle performance. Infatti i cookie, sia di terze che di prime parti, ci permettono di monitorare una buona parte di quello che accade durante una navigazione, l’abbiamo già sottolineato.
La logica del consenso e la morte dei cookie di terze parti, di fatto, ha ribaltato le modalità con cui tracciamo e di conseguenza valutiamo l’andamento delle nostre attività pubblicitarie sul web.
Abbiamo meno dati, questo è certo, ma la tecnologia ci viene incontro offrendoci una soluzione ormai fondamentale per il futuro di un business online: il tracking lato server.
Dalla dinamica client-side a quella server-side e il problema dell’attribuzione
Se il problema, infatti, è la tutela del dato, l’unico modo per aggirare la funzione poco sicura dei browser di trattenimento dei cookie è utilizzare un server che sia volto proprio alla raccolta protetta, previo consenso, dei dati di navigazione. Di base passiamo da una dinamica client-side a una dinamica server-side. Ma non basta.
Uno dei nodi centrali sulla questione performance è l’attribuzione, ossia la possibilità di comprendere in maniera precisa il percorso che ha compiuto l’utente prima di generare una conversione e quali sono i canali da cui è costituito questo percorso. Per intenderci: se nel mio assetto strategico lavoro con Meta Ads, Google Ads, la DEM, Criteo, la SEO, avrò necessità di sapere quale di questi canali ha prodotto maggiori performance e a quale costo.
Stiamo parlando dell’approccio usato fino a pochissimo tempo fa, ossia il Multi Touch Attribution, definito anche come logica dei modelli di attribuzione. A seconda del modello scelto (lineare, decadimento temporale, last clic, ecc.) distribuivamo il peso della conversione tra i canali adottati.
Di base questa era una delle modalità più note per ottimizzare il budget, sprecare meno denaro possibile e attivare una logica di scaling.
Non è mai stata una modalità perfetta, moltissimi erano i dubbi rispetto alla ricostruzione del path (ossia del percorso dell’utente), anche perché tutto ciò che avveniva lato impression o offline di fatto non esisteva.
Dal Multi Touch Attribution al Marketing Mix Modeling
Ricostruire una corretta attribuzione, viste tutte le novità in materia di tracciamento dati, tramite piattaforme di digital advertising e analytics sarà (per alcuni versi lo è stata anche finora) sempre più complesso, con margini di imprecisione notevoli vista la mole di dati mancanti che tenderà solo ad aumentare nel tempo.
Una delle soluzioni data-driven più di tendenza per sopperire alla fine del Multi Touch Attribution è l’adozione del Marketing Mix Modeling. Di base questo è uno strumento statistico, privacy-friendly, che ci consente di valutare come tutte le attività pubblicitarie abbiano un impatto sulle vendite. Oltre a questa funzione di analisi, la forza di questo strumento sta nella capacità predittiva: sulla base di quanto analizzato, modificando alcune variabili (stagionalità, prezzi, competitors, promozioni, ecc.) inserite nel modello, un MMM permette di costruire degli scenari ipotetici.
La valutazione, quindi, non avviene seguendo il comportamento degli utenti, ma utilizzando i dati storici relativi agli investimenti pubblicitari e alla loro efficacia.
L’unica perplessità legata a questo potentissimo strumento è la mole di dati richiesta per essere affidabile e dare risultati attendibili, ma di certo rappresenta un’evoluzione notevole in fatto di analisi, ottimizzazione e predizione.
I test di incrementalità
L’altra possibilità, che da tempo viene adottata da chi lavora soprattutto con la pubblicità visuale, per superare le inesattezze relative all’attribuzione e alla sua accuratezza sono i test d’incrementalità. L’incrementalità ci permette di sapere se alcune conversioni, per esempio, ci sarebbero state comunque anche se non avessimo fatto una determinata campagna.
Risponde alle domande che da sempre ci vengono poste dalle aziende con cui collaboriamo: chi mi assicura che senza una campagna Search comunque gli utenti sarebbero arrivati a visitare il mio sito web e a contattarmi? La risposta arriva dai test d’incrementalità. Nonostante la logica di sottofondo di questi test possa sembrare semplice, la sua applicazione in realtà è complessa e richiede molto rigore nella sua esecuzione.
La scelta delle metriche da monitorare, per esempio, è uno dei primi nodi da affrontare.
Il secondo nodo è la possibilità di avere budget per testare. E potremmo proseguire a lungo.
Un paio di riflessioni per chi si occupa di performance
La rivoluzione legata all’accesso ai dati e al loro utilizzo è innegabile. Abbiamo trovato delle soluzioni tecnologiche e statistiche per ovviare alla mole di dati persa, abbiamo meno possibilità nella fase di acquisizione e dobbiamo lavorare molto di più sul marketing relazionale, ma questa tempesta ha messo in luce alcune riflessioni davvero notevoli per chi lavora nel campo del marketing digitale:
– L’attribuzione è affare dei tecnici e basta
All’imprenditore, ai referenti delle aziende con cui parliamo, non interessa quale canale ha contribuito alla conversione e in quale percentuale. Il nostro compito è ottimizzare un budget rispetto ai KPI stabiliti. Una buona parte delle discussioni sui modelli di attribuzione è stata per anni puro onanismo degli addetti ai lavori.
– Tracciare solo ciò che serve, l’ecologia del dato ora è un’imposizione
Tracciare, monitorare, ottimizzare sono tutte faccende costose in termini economici, di risorse allocate, di energie. Per anni abbiamo raccolto tutto quello che ci capitava sotto mano, spesso dimenticando che le domande cardine erano: Ma a cosa servono tutti questi dati? Come li uso in maniera efficace?
Ora dobbiamo ripartire dalle domande perché le risorse sono poche e le tecnologie sempre più complesse. Finalmente.
– La data visualization è la vera sfida di un marketer moderno
La cura del dato è centrale, cosa ce ne facciamo è centrale, come ipotizziamo scenari è centrale.
Ma la sopravvivenza del nostro lavoro è legata a come impariamo a raccontare storie a partire dai dati e per farlo dobbiamo sforzarci di renderli leggibili anche a chi è completamente al di fuori del nostro ecosistema.
I dati sono segni, parlano, raccontano. Avere dati incomprensibili ai decision maker di un business online equivale a non averli. Quindi, di fatto, vanifica tutti gli sforzi tecnologici fatti per ottenerli puliti, protetti e completi. Inoltre, lavorare per visualizzare un dato in maniera corretta ci dà accesso alla sua piena comprensione, elemento cruciale per un’ottimizzazione di valore.
“Senza un dato sei solo una persona con un’opinione”, e di questo ne siamo convinti. Io aggiungo che, solo se al dato aggiungi una narrazione chiara a tutti gli attori di un progetto, allora avrai fatto davvero centro.
Immagine generata con Midjourney.