Qualche settimana fa abbiamo fatto una diretta Facebook con Manuele Forcucci e Daniele Iori, i nostri docenti di Design Thinking: un piccolo aperitivo del nostro corso, un po’ come le prime dieci pagine dei libri in anteprima su Amazon. Abbiamo ragionato sul concetto di Design Thinking e come lo applichiamo, cos’è un Designer e quando serve.
Qui ti riporto la parte in cui abbiamo parlato di principi e di processi alla base del Design Thinking.
Design Thinking è un’espressione che nasce dal saggio omonimo di Peter Rowe del 1987; il concetto è stato poi ripreso e approfondito dai fratelli Kelly di IDEO.
David e Tom Kelly ci hanno portato al concetto del Design Thinking attuale, che utilizza, tra strumenti del designer, l’empatia e la sperimentazione per arrivare a soluzioni innovative, per dirlo con le loro parole:
“Usare il design thinking significa credere che coloro che sono affetti dal problema siano gli stessi che possiedono le chiavi per risolverlo”.
Inoltre permette di innovare non basandosi soltanto sull’intuizione ma sull’evidenza: dati e necessità delle persone.
Ecco che le persone sono veramente al centro della progettazione fin dalle sue prime fasi. Le persone con cui parliamo non ci servono solo come fonte di informazioni, perché spesso non sono solo i futuri destinatari ma anche coloro che detengono gli strumenti per trovare le soluzioni e le opportunità che stiamo cercando.
Human Centered Design è arrivare a una soluzione che sia desiderabile, fattibile ed economicamente sostenibile. Ed è anche un atto di bilanciamento perché le soluzioni siano contemporaneamente efficaci, realizzabili tecnicamente e sostenibili economicamente.
Il design thinking richiede una serie di principi che non possono essere svincolati dai processi.
Ecco una sintesi di questi principi (in parte ne avevamo già parlato nel post “Quando applicare il Design Thinking?”):
Il design Thinking fonda la sua base teorica principalmente su 3 teorie cognitive:
Gli strumenti che utilizziamo (lavagne, post it, strutture di ampio spazio) funzionano come un’estensione del nostro cervello, aiutano, soprattutto in gruppo, a lavorare molto meglio. Questo perché il cervello umano ha una memoria tampone limitata ma è molto efficiente nel trovare pattern e schemi all’interno delle informazioni, anche e soprattutto se queste sono distribuite e disposte in una maniera che permette la possibilità di “linkare” un’informazione all’altra.
All’interno di questo processo i designer assumono il ruolo di facilitatori nei confronti degli altri partecipanti al progetto, portando il corpus di approcci e strumenti che hanno definito nel tempo.
Vale a dire: è molto più facile raggiungere una soluzione ottimale facendo cicli di iterazione di modellazione del mondo.
Con una super semplificazione, esprime il concetto giapponese del Wabi-sabi che potremmo spiegare con “l’impermanenza”: noi sappiamo che niente è veramente finito e dura all’infinito e niente è mai perfetto. Ed è su questo principio che noi cerchiamo di raggiungere la perfezione con iterazioni successive. Più è labile il ciclo di feedback, più è labile il movimento verso la soluzione.
Dal punto di vista dei processi, invece, Don Norman afferma che la maggior parte di questi è una variazione di un ciclo che prevede 4 fasi:
Queste quattro attività sono cicliche: ogni volta il prototipo successivo ci fa fare un salto in avanti, fino a che non ci avviciniamo alla soluzione ottimale, cioè quando il prototipo, in fase di verifica, si avvicina all’idea di soluzione che ci eravamo preposti (desiderabile, fattibile, economicamente sostenibile).
Il Design Council inglese, in un modello chiamato Double Diamond, racchiude queste fasi in due macrofasi così riassumibili: prima identifica il problema REALE, e poi risolvilo in modo che corrisponda alle necessità e capacità umane.
La soluzione migliore possibile sarà quella che risponde e non si discosta dalle necessità reali degli utilizzatori. Queste fasi hanno un ritmo alternato di divergenza e di necessaria riconvergenza.
Dipende da qual è lo scopo del progetto. Parliamo di ridisegnare un e-commerce, ad esempio. Vogliamo migliorare l’usabilità? In questo caso spesso bastano le best practice.
Oppure vogliamo ripensare l’e-commerce rispetto alle necessità degli utenti? In questo caso abbiamo bisogno di innestare un processo di ricerca, prototipazione, eccetera, che riguarda non solo il sito, ma potrebbe toccare anche la logistica.
Ci sono diversi tipi di co-design e diversi modi per farlo, oltre che in fasi diverse. È difficile identificare un momento o uno scopo unico. In generale la situazione migliore è quando hai un team collaborativo, un facilitatore che li aiuta a rimanere nella giusta fase (convergente o divergente) e le persone al tavolo sono esperte di dominio. Questo è il momento in cui il designer trova di estrema utilità un codesign.
Se vuoi imparare con noi come usare il Design Thinking per i tuoi progetti, ti aspettiamo al nostro corso “Design Thinking, progettare per le persone“.
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